DISSERTAZIONE
SU I GIARDINI INGLESI
E SUL MERITO IN CIÒ DELL’ITALIA
presentata all’accademia di scienze,
lettere, ed arti di padova nell’anno 1792.
e inserita nel volume iv. degli atti
dell’accademia medesima.
DISSERTAZIONE
Un giardino, scrive Bacone di Verulamio, è il più puro de’ nostri
piaceri, e il ristoro maggiore de’ nostri spiriti, e senza esso le fabbriche ed
i palagi altro non sono, che rozze opere manuali: di fatto si vede sempre, che
ove il secolo perviene al ripulimento ed all’eleganza, gli uomini si danno
prima a fabbricare sontuosamente, e poi a disegnar giardini garbatamente, come
se quest’arte fosse ciò che havvi
di più perfetto. CosìBacone[1]. L’Italia, al risorgere delle lettere e
delle belle arti, fu la prima a coltivare, come gli altri studj, quello ancora
delle amenità villerecce: ma convien confessare, che ora molte nazioni
nell’amore ci vincono e nella cura di queste tranquille, ed erudite delizie, e
che l’Inghilterra è nelle medesime la maestra delle nazioni tutte.
Non è così facile il dare un’idea veramente giusta ed esatta de’
giardini Inglesi, perchè quest’arte venne perfezionata di
fresco, anzi si va tuttora perfezionando, non trovandosi forse giardino,
che non abbia qualche difetto grave, il che non toglie, che se ne conoscan bene
le regole, stante che sappiamo anche come debba farsi un poema, benchè poema
perfetto non sia mai stato fatto.
L’arte del giardiniere Inglese consiste nell’abbellir così un terreno
assai vasto, che sembrar possa, che la natura l’abbia in quella guisa abbellito
ella stessa, ma la natura intesa a far cosa più squisita e compiuta, che far
non le veggiamo comunemente, riunendo in un dato spazio molte bellezze, che non
suole riunir mai, e dando a quelle bellezze stesse una perfezione ed un
finimento maggiore. Che cosa veramente desidera l’uomo Inglese? Desidera
vedersi in mezzo a una varia, e, quanto più gli può andar fatto, deliziosa
campagna: quindi si studierà di formare il terreno, regolar le acque, disporre
gli alberi ed i cespugli, alzar qualche
fabbrica, servirsi delle rupi e balze, se per fortuna trovasi averne, e
finalmente così ordinar tutto, che o diportandosi a piedi, o prendendo un più
largo giro a cavallo, gli appariscano successivamente novelle scene
maravigliose, e d’ogni maniera, cioè o gentili e ridenti e sublimi, o sparse
d’una dolce melanconia, o dipinte d’una bella orridezza. Di qui si vede, che la
parola, che usiamo, non dice abbastanza. Giardino propriamente è la parte più
ornata, a cui s’aggiunge il parco, ed anche il podere, o una porzione di
questo, poichè l’utile al dilettevole sempre si vuole unito, sì veramente, che
il primo sotto la sembianza del secondo si mostri sempre. Non v’ha dunque
vocabolo, che comprenda il tutto, e gl’Inglesi stessi usano la parola, come
noi, di giardino.
Non è del mio assunto il dichiarar minutamente tutti que’ mezzi, con cui
gl’Inglesi producono effetti sì nobili e sì stupendi; ma pochissimo conosciuta
essendo
generalmente quest’arte in Italia, lasciar non posso di toccarne almeno
i punti più essenziali e importanti. E già quanto al terreno, ciascun vedrà
subito, ch’esser non può, che o convesso, o concavo, o piano: si tratterà
dunque di unire insieme, e di far combinare così i differenti spazj, che una
bellezza ne risulti naturale, sì, ma grandissima, e quale la natura dovesse
compiacersi assaissimo di averla inventata. Rispetto alle piante, non converrà
nè disporle, nè grupparle insieme senza badare alla lor figura, ed al colorito,
altre essendo spesse e serrate, ed altre rare ed ariose, altre gittando rami
dal più basso tronco, ed altre solamente dall’alto, altre piramidando, e altre
no, e queste tingendosi d’un verde scuro, e quelle d’un chiaro, ed alcune d’un
verde tocco leggermente o da un bruno, o da un bianco, o da un giallo ancora; e
non solo tra loro, ma variando ancora in sè stesse secondo la loro diversa età:
oltre che le
foglie hanno anche una certa agilità, o rigidezza, per cui secondan più
o meno l’intenzione del giardiniere, e talune che vantano un certo lustro, e
sanno rallegrare un boschetto, là sarebbero inopportune, ove una cupa e severa
oscurità si desiderasse. La stessa diligente osservazione della natura sarà
necessaria in riguardo all’acque, senza le quali par cosa morta un giardino, o
queste stagnino in forma di lago, o scorrano in quella di ruscello, o di fiume,
con ponti, e con isolette, o precipitino d’alto in cascata, il che nondimeno è
sì difficile ad eseguirsi, che molti hanno queste cascate con savia
disperazione affatto sbandite. Dicasi il medesimo delle rupi: quegli che per
sorte le ha, può bene con qualche modificazione farle al suo intento
rispondere, ma folle e perduto tentativo sarebbe il voler crearsele; e così,
quanto alle fabbriche, fortunato chiameremo chi possedesse un vecchio castello,
una Gotica chiesa o altra vera ruina,
a cui difficilmente possono somigliar bene gli artificiali diroccamenti.
Che dirò de’ riguardi che voglionsi avere alle differenti ore del giorno, onde
risultano effetti differenti, ed anche alle diverse stagioni, ciascuna delle
quali ha nel giardino le sue bellezze, non mancando chi preferisca l’autunno
per la varietà de’ colori, mentre, in grazia degli alberi sempre verdi, e di
alcune altre avvertenze, non è scolorato, nè senza delizie, lo stesso inverno?
Che dirò degli animali, onde la terra e l’acqua son popolate, e avvivato è il
tutto, come, oltre i più comuni, i daini ancora, ed i cervi, e i candidi cigni?
Finalmente osservisi, che l’uomo Inglese s’insignorisce, per dir così, e gode
dell’intero paese che lo circonda, ordinando egli le cose tutte in maniera, che
un monte, una torre, o altro oggetto importante, ch’è fuori del giardin suo,
par collocato là a bella posta per contribuire ai piaceri di lui, creando un
prospetto, o perfezionando,
senza saperlo, una delle scene del suo giardino.
Da tutto ciò si ricava, quanto grande richiedasi estension di terreno a
tali intraprese, e quanto abbiano del ridicolo certe imitazioni dell’Inglese
maniera, che si veggono in più parti d’Europa. Negli stessi giardinetti, che
verdeggiano a tergo de’ palazzi cittadineschi, trovi con istupore que’ sentieri
a zig-zag, e come si dipingono le saette, i quali, oltre che ancor ne’ giardini
grandi deggion muoversi con dolci curve, così conducendoli la natura, servono,
ciò che ne’ piccioli non può aver luogo, ad allungare e più forse, che non
vorresti, i passeggi tuoi, celando sempre la meta, e novelli oggetti
promettendo sempre alla tua rinascente curiosità. E que’ tempietti Cinesi? Come
se colonie venute fossero in Francia, o in Germania di Cinesi uomini, che
lasciati ci avessero, ed anche ottimamente conservati, i lor monumenti.
Ricavasi pure da ciò che si disse, o che accennossi piuttosto, quanto
tali giardini s’allontanin da quelli che chiamansi regolari, ed ove il
giardinajo, o, a dir meglio, l’architetto taglia le piante, come fossero
pietre, e ne forma camere, laberinti, teatri, o lunghi e diritti viali con vasi
e statue, che stannosi di rimpetto; ove rinchiude tra il muro le acque, o dal
piombo in alto le slancia; ove il terren disuguale divide in piani, lo sostien
con pareti, e pratica marmoree scale, perchè un piano riesca all’altro; ove
più, che l’erba, il marmo, più, che l’ombra, domina il sole; ed ove non si tien
conto di quelle prospettive, che il paese con vana e non accettata cortesia
forse somministra. Però non è da domandare, se gl’Inglesi si ridano di simili
studj. Ma i lor giardini sono poi tali, che non vadan soggetti a difficoltà
niuna? Non mi par veramente. E forse v’ha tale obbiezione contra essi, ch’io
non credo esser mai stata fatta.
L’arte de’ giardini irregolari si propone, come vantansi gli stessi
Inglesi, d’imitare, abbellendola, la natura: si propone quello che la Pittura e
la Statuaria, anzi tutte quelle arti, le quali si chiamano imitative, e tra le
quali questa pure de’ giardini irregolari, o moderni, che dicansi, vien
collocata. Veggiamo, s’ella merita un così bel posto.
L’artista, qualunque siasi, che prende a imitar la natura, ha una
materia sua propria, di cui si vale per le sue imitazioni. Una tela, o tavola,
o altro di superficie piana con alquante terre colorite è la materia del
pittore: un pezzo di marmo quella dello statuario. E tanto importa la
considerazione di questo materiale, che da esso principalmente quel piacer
deriva, e quello stupore che tali arti producono in noi; dal veder cioè, che
l’artista con una materia tra le mani indocile oltre modo e ritrosa, seppe
nondimeno, senza mai cambiarla, modificarla così, che tanto rassomigliasse
all’originale da lui tolto a
imitare, quanto non si sarebbe creduto, che rassomigliare potesse. Di
fatto mettiamoci a riunire quelle due arti, e coloriamo una statua: cresce
l’imitazione, e ciò non ostante l’effetto scema. Ma condur tali linee, e
contrapporre tali chiari e scuri, che una superficie piana mi paja camera, o
bosco con gente che operar sembra, e parlare? Ma da masso informe fare uscir
persona, e dare al marmo la morbidezza delle carni umane, e la immagine
dell’umane passioni? Questa è maraviglia: diletto è questo. E lo stesso dicasi
del poeta. I versi sono la materia, di cui egli si vale: poichè la vivezza del
colorito, la forza dell’espressione, e simili requisiti non sono così proprj di
lui, che ad altri scrittori ancora non appartengano. Ed ecco perchè quella
opinione non regge, che diasi poesia senza metro, e che si possa scrivere in
prosa la tragedia, o il poema, se piace tal comodità. Per questo appunto, che
le persone, che il poeta introduce,
parlarono in prosa, non la userà egli; là non v’essendo più vera
imitazione, ove s’adopera quel materiale stesso, che la natura suole adoperare.
E se alcuni moderni nelle lor commedie l’usarono, non per questo io dirolli
poeti, come non li direbbero i Greci, e i Romani, che in versi le commedie loro
scrissero tutti.
Non può dunque l’arte de’ giardini Inglesi essere imitativa, e tra le
arti, che si chiamano con tal nome, venir collocata. Tale sarà bensì quella
d’un pittore di paeselli, che in un quadro mi rappresenti una bella campagna,
perfezionando le scene da lui osservate, e il vero all’ideale con la
immaginazione sua riducendo: ma non intenderò mai, come allora ci sia
imitazione, ch’io mi servo della stessa materia, ond’è composto il mio
originale, e come si possa imitar la natura con la natura.
Si dirà che tale obbiezione colpisce piuttosto quegli scrittori, da cui
tra le arti imitative posta fu questa, di cui parliamo, che
non questa medesima, la quale potrebbe bella essere, benchè non
imitatrice, o benchè non imitatrice a quel modo, che sono le altre, cioè non
usando una materia sua propria, che non possiede, ma di quella insignorendosi
dello stesso suo originale, ed operando con quella. Ed aggiungeranno, che se
quest’arte produce con la sua imitazione un diletto, poco rileva, che non sia
quello appuntino, che dall’altre arti con le imitazioni loro vien generato.
Questo discorso par ragionevole: ma tale nuova maniera d’imitare non potendo
non riuscirmi sospetta, converrà esaminare alquanto la spezie di diletto, che
da quella risulta.
Ciascun sa, che molti piaceri si compongono di sensazione, e di
riflessione ad un tempo: anzi spesse volte renduto è grande dalla riflessione
un piacere, che piccolo assai, quanto alla sensazione, sarebbe. Ciò posto,
diremo così: quando io passeggio per qualche campagna, e mi vien fatto
d’incontrare una scena naturale, ma bella olta
modo, ecco mi s’avventa subito al cuore una certa soavità; ma questa
soavità quanto non l’accresce il considerare, che quella bellezza è prodotta
dal caso, il quale accozzò insieme que’ diversi oggetti così, che un tutto
nobile e raro ne scaturisse? Per lo contrario, quando una bella scena
artifiziale mi s’appresenta, certo io ricevo subito una sensazione assai dolce;
ma la riflessione, lungi dall’accrescere il piacere, parmi anzi diminuirlo.
Perciocchè il sapere, che quell’accozzamento è uno studio, mi rende di
difficilissima contentatura: intanto che una minor bellezza, ma casuale, mi
diletterà, e m’incanterà molto più, che un’assai maggiore, ma frutto dell’arte,
dalla quale non è cosa ch’io non esiga. E ciò io dico di quelle bellezze che
l’arte sa perfezionare: perchè rispetto a quelle più grandi e sublimi, che osa
imitare talvolta, è incredibile quanto rimanga al di sotto, e quanto più mi
disgusti la infelicità, che l’ardire non mi piaccia, del tentativo.
Forse opporranno alcuni, che nella natura stessa noi veggiam sempre la
man dell’uomo, senza la quale le acque si radunerebbero ne’ luoghi bassi, e
quindi d’umidità pieni e di freddo, e pessimo governo farebbe degli alti la
siccità: ogni pianura sarebbe palude, ogni bosco presso che impenetrabile per
la vegetazione lasciata in balia a sè medesima; e se qualche bellezza selvaggia
ed orrida di scoprire ci fosse dato, indarno ne ricercheremmo una sola del
genere ameno e ridente. A ciò si risponde, che questa considerazione non
destasi negli uomini comunemente, i quali, nel vagheggiar che fanno una
deliziosa campagna, si dimenticano della parte, che la coltivazione vi ha. In
oltre è vero, che l’uomo doma e ingentilisce questo monte, rinserra e dirige
quel fiume, mescola ed alterna le sementi e le piante, e per conseguenza le
forme e i colori, e una qualche maniera di fabbrica innalza qua e là. Ma
queste, e cento altre cose le fa egli
per ragioni particolari d’utilità propria: da tutte poi nasce spesso,
senza ch’e’ vi abbia pensato, una combinazione di oggetti, che piace e rapisce,
ma combinazione che vien prodotta unicamente dal caso, e che da noi si suole
chiamar natura. E nutrendosi una opinion grande e superba delle opere dell’arte,
rimpetto alla quale il caso pare non aver forza niuna, è chiaro, che le felici
produzioni di questo più assai, che i maggiori sforzi di quella, la maraviglia
dovranno, e il diletto in noi risvegliare.
S’aggiunga, che gli uomini, passeggiando per una bella campagna
artefatta, son costretti di applaudire all’artefice, e di avergli obbligo del
piacere che lor procura; e ciascun sa, che così il dare una lode, come il
ricevere un benefizio, a molti pur troppo riesce gravoso. Ma quando per lo
contrario altri vagheggia una scena naturale, non resta obbligato ad alcuno di
quel piacere, e invece di lodare un altro, loda, cosa generalmente più dolce,
sè stesso: poichè una
scena naturale ci par quasi creata da noi medesimi, che spesso ci
crediamo i primi ad osservarla, o almeno ad osservarla con quella diligenza
sagace e dotta, che non lascia indietro nulla di quanto può conferire alla sua
perfezione. Quanto non dovrà dunque sembrarci vaga, singolare, magnifica?
Alcuni pertanto potrebber dire, che non dovremmo privarci di quella
spezie di bello, che ne’ giardini regolari si trova, di que’ pergolati e di
quelle spalliere, di que’ giuochi e spruzzi mirabili d’acqua, che si colorisce
al sole e s’indora, di que’ verdi ricami, di que’ sontuosi terrazzi, de’ bronzi
gettati e degli scolpiti marmi, d’un luogo infine, ove tra l’erbe ed i fiori
l’Idraulica, la Statuaria e l’Architettura insieme gareggiano; e goder poi
delle bellezze semplici e schiette, e certo infinitamente superiori, in mezzo
ai campi, su la riva de’ fiumi, tra i monti e le valli, cioè nelle braccia, per
così dire, della vera ed originale natura. Nè vergognarci tanto di amar ne’
giardini quella regolarità
che tanto ci piace negli edifizj; e considerare, che di quella così
nemica non è la natura stessa, che se ne valse nell’opera sua più bella, nella
figura dell’uomo. E lasciando anche ciò, perchè, avendo due piaceri, rimaner
vorremo con uno solo? Due piaceri che per l’opposizione, in cui son tra loro,
s’aguzzano scambievolmente, e del minor de’ quali potrò almeno servirmi per
tornagusto. Perchè, godendo delle bellezze naturali, non godrò ancora di veder
gli alberi e le acque, di veder la stessa natura dall’uom sottomessa, e a’ suoi
capricci ubbidiente, ammirando il poter dell’uomo, e il mio amor proprio
rallegrando con tale ammirazione?
Ma comunque possano essere ricevute queste riflessioni, convien
confessare, che quando bene l’Inglese giardino non generasse tutto quel diletto
e quella maraviglia, che i suoi partigiani promettono, molto volentieri l’uomo
vi passeggerà sempre per entro: il che vuolsi attribuire in gran parte a
quella cura instancabile ed erudita, con cui trattano, come tutte le
altre cose, questa pure gl’Inglesi. Perchè, oltre la gran varietà delle piante,
tra le quali ne vedi assaissime di forestiere ch’eglino hanno con sommo studio
addomesticate, oltre tante loro avvertenze finissime, che lungo sarebbe il solo
accennare, è incredibile, con quanta diligenza la cotica del prato educando
vanno, e con que’ lor cilindri domando; mentre a maraviglia gli ajuta l’umidità
del clima, e il frequente piovigginare, onde quella viva e forte verdezza, che
molto di rado fuori si vede dell’Inghilterra. Senza che, ove sia vero, che la
più parte degli uomini di buon gusto allettata resti e rapita da tali delizie,
poco varrebbe ogni ragionamento contra esse vibrato, comechè giusto. Ed è anche
una gran presunzione in favor loro l’andar vedendo il conto che i personaggi ne
fanno più ingegnosi e dotti d’una tanto illuminata nazione, la qual non può
credersi quanto si compiaccia di aver questa spezie di giardini
non solo perfezionata quasi, ma diremo ancora inventata.
Vero è, che, quanto all’invenzione, non mancan di quelli che
all’Inghilterra la tolgono, e la danno alla Cina. Tuttavia questo punto non è
stato sparso ancora di tanta chiarezza, che regolar possa i nostri giudizj. Le
descrizioni, che dei giardini Cinesi, e delle delizie dell’Imperatore presso
Pekino ci han date i Padri Gesuiti, non sono abbastanza particolareggiate e
distinte; ed il celebre Cavalier Chambers, che ne trattò più ampiamente, ma che
poco s’internò nel paese, confessa con lodevole ingenuità non aver veduto di
que’ giardini, che i men grandi, e meno curiosi, e che più assai, che da
questi, notizia trasse del far Cinese dalla bocca d’un pittor famoso di quella
nazione chiamato Lepqua. Ma supponendo ancora, che tra quel giardino, e il
Britannico non corresse differenza niuna, ne conseguita forse, che il primo sia
stato modello al secondo?
È egli necessario il far viaggiare le arti da un paese all’altro, come
se due nazioni trovar non potessero la cosa stessa? E se per avere i Cinesi
trovato assai prima la polvere d’arcobugio, e la bussola, e forse anche la
stampa, non però si toglie la gloria di queste tre scoperte alla Germania, e
all’Italia, perchè vorremo defraudar l’Inghilterra di quella d’una maniera di
giardini, che forse prima erano nella Cina?
Fu investigata eziandio la maniera de’ giardini degli antichi: ma nulla
s’incontra ne’ libri, che lo stile Britannico rappresenti. Quelli di Alcinoo,
che ne’ versi d’Omero, come disse colui, sempre verdeggeranno, non eran che un
orto con alquanti legumi in quadro, e due fontane per irrigarli, oltre le
piante fruttifere: non contenea l’intero ricinto, che quattro jugeri, e
regolarmente distribuito era ogni cosa. Poco sappiamo di quelli di Babilonia.
Sforzi tuttavia così grandi d’arte e di lusso
slontanan da noi ogn’idea di semplicità e di natura; senza che non par
che orti pensili, supposta la verità de’ Babilonesi mal grado del silenzio
d’Erodoto, potessero essere di quella estensione, che l’Inglese gusto richiede.
Quanto ai Romani, molti passi di autori, e le celebri lettere massimamente
delgiovine Plinio, che parlano della sua villa Laurentina, e di quella, che
avea egli in Toscana, non ci lasciano dubitare della regolarità e simmetria de’
giardini loro: alberi tagliati in diverse forme di animali, e di vasi,
terrazzi, viali, giuochi d’acqua, e simili ricercatezze; benchè forse alcuni le
condannassero, come si può conghietturare da questo luogo di Giovenale:
In vallem Egeriæ descendimus, et speluncas
Dissimiles veris. Quanto præstantius esset
Numen aquæ, viridi si margine clauderet undas
Herba, nec ingenuum violarent mormora tophum!
Ciò che si disse dell’antica, dicasi ancora della moderna Italia, che
sin dal secolo decimoquarto conosce questi piaceri, come
apparisce dallaterza giornata del Decamerone; cioè tre secoli prima
della Francia, che solamente sotto Lodovico il Grande cominciò ad essere
giardiniera, e che ultimamente imitò anche in questo la sua rivale Inghilterra,
piantando, scrivendo libri su tale argomento, ed eziandio poetando, giacchè
molto del Poema del Mason sopra i Giardini, e dell’Epistola del Pope al Lord
Burlington, si giovò nel celebre Poema suo il valoroso Delille. La Germania non
meno ha molti giardini, che sono, o ch’esser vorrebbero Inglesi, e parecchi ne
abbiamo presentemente anche noi, ma io non ne conosco che tre: l’uno a Caserta,
che nascer vidi sotto la direzione d’un valente artista Tedesco, l’altro non
lungi di Cremona, che appartiene ai due coltissimi, e gentilissimi fratelli
Picenardi, e il terzo presso Genova disegnato da quel Senator Lomellini, che fu
così applaudito ministro a Parigi della sua Repubblica.
Finalmente si studiò, se v’era scrittore,
nel quale si trovasse qualche immagine di giardino irregolare non già
eseguito, ma da eseguirsi; intanto che dove i precetti dell’arti si sogliono
trar dagli esempi, questa volta all’opposto la pratica fosse stata preceduta
dalla teorica. In effetto una immagine di quello luminosissima si credette
vedere nella descrizione del Paradiso terrestre fatta dal Milton. Laonde dicon
gl’Inglesi: Questo giardino è cosa totalmente nostra; poichè il Milton lo ci
mostrò prima nel suo maraviglioso Poema, e noi poscia da questo su la faccia
della terra lo trasferimmo, e di fantastico il rendemmo reale. Noi abbiamo
avuto, scrive l’illustre autore del Saggio su l’arte de’giardini moderni, un
uomo, un grande uomo, a cui nè l’educazion, nè l’usanza preoccupava la mente;
il quale
Benchè serbato a ree stagioni, e tutto
Di cecità, di solitudin cinto,
giudicò, che i falsi e bizzarri ornamenti, che veduto avea ne’ giardini,
erano indegni
della mano onnipossente, che piantò le delizie del Paradiso. Col profetic’occhio
del gusto (così udii definir bene il gusto) egli sembra aver concepito, ed
antiveduto la moderna maniera, come il Lord Baconeannunziò le scoperte
posteriormente fatte dalla sperimentale Filosofia. La descrizione dell’Eden è
più calda e pia giusta pittura del presente stile, che non sarebbe una copia di
Hagley, e di Stourhead per mano di Claudio Lorenese[2]. Così il
signor Walpole, poi Lord Orford: Hagley e Stourhead son due giardini
rinomati dell’Inghilterra.
Ma ciò, che l’ingegnoso autore ha detto del Milton, a me pare, che assai
più convenevolmente si sarebbe pronunziato d’un nostro Italiano, cioè
dell’immortale Torquato Tasso. Questi trovò con la forza dell’ingegno suo,
questi diede il primo l’idea di tali giardini; ed è una certa meraviglia, che
il Serassi, a cui nulla sfuggiva di quanto tornar potea in lode del suo
Torquato, ciò non abbia nella lunga Vita, ch’egli ne scrisse, avvertito. Un
breve confronto tra la descrizione del Paradiso terrestre, e quella degli orti
di Armida, dimostrerà chiaramente la mia asserzione. Udiam prima il Milton
nella Traduzione del Rolli, che se non è abbastanza leggiadra, certo è fedele
abbastanza.
Così lo Spirto reo siegue il suo varco,
Ed a’ confini d’Eden s’avvicina,
Dove il delizïoso Paradiso
Mirasi or più vicin con verde claustro
coronar quasi di rurale sponda
L’aperta sommità d’erta boscaglia,
I di cui lati irti per siepi e dumi
Altamente cresciuti ermi e selvaggi
Niegan sentier. D’altezza insuperabile
Ombra vasta, al di su, porgeano il cedro,
Il pin, l’abete, e la ramosa palma:
Scenica boschereccia! Ed ascendendo
Per grado una su l’altra ombra, ne apparve
Teatral selva di grandioso aspetto.
Pur alto più, che le lor cime sorgono
Del Paradiso i verdeggianti muri,
Che al nostro primo Genitore un largo
Prospetto dan sopra il suo basso impero,
E alle sue vaste vicinanze intorno.
Indi, alto più di quelle mura, in cerchio
Frondeggia un filar d’alberi i più vaghi
Carchi di frutta le più dolci e belle.
Il frutto e il fiore di color dorato
Ambo appariano a un tempo istesso, e tutti
Smaltati di color diversi e gai,
Dove il Sole imprimea raggi più lieti,
Che in vaga nube a sera, o che nell’umido
Arco, poichè irrigata ha Dio la terra.
Sì amabile apparia quel bel paese !
. . .
. . .
.
Scorre per l’Eden verso l’ostro un largo
Fiume senza cangiar corso, e per entro
Selvoso monte sotterraneo ingolfa:
Chè collocato ivi quel monte Iddio
Avea del suo giardin come una sponda
Alto sovra la rapida corrente,
Onde l’umor per le porose vene
Con benefica sete alto contratto
Ne scaturisse il fresco fonte, e tutto
Irrigando il giardin con più ruscelli;
Quinci poi riunito in giù cadesse
Dalla rapida balza ad incontrarsi
Con la bassa corrente, ove all’aperto
Fuor dell’oscuro suo varco apparisce:
E donde in quattro principali fiumi
Divisa scorre, e più famosi regni,
Cui ridir qui non giova, errando bagna.
Ben fora d’uopo dir, s’arte il potesse,
Come da quella fonte di zaffiro
I crespi rivi rivolgendo il corso
Su perle orïentali e arene d’oro
Per girevoli verdi labirinti
Scorron nettare sotto ombre pendenti,
Ed ogni pianta visitando, nutrono
I vaghi fior, di Paradiso degni,
Cui non industrïosa arte in diverse
Forme di culto suol, ma in monti e in valli,
E in piagge compartì l’alma natura
Egualmente profusa, e dove il Sole
Scalda fin dal mattino il campo aprico,
E dove opaca impenetrabil ombra
A mezzo dì la boschereccia imbruna.
Sì questo ameno luogo era un felice
Sito rural di differenti aspetti,
Boschetti, le cui piante prezïose
Gomma odorata e balsamo distillano,
O le cui frutta di dorata scorza
Con brunito splendor pendono amabili,
Favoleggiate già in Esperia, e solo
Qui vere, e di sapor delizïoso.
Fra lor pianure e livellate piagge,
E greggie a pascolar l’erbette tenere
Stavan frapposte, o d’elevate piante
Collinette coperte, o il grembo florido
Di qualche valle di ruscelli piena
La dovizia spandea de’ suoi bei fiori
D’ogni colore, e rose senza spine:
Veggonsi in altra parte ombrose grotte,
E spechi di freschissimo ritiro
Cui sopra, a tardo piè, serpe la vite
Lussureggiante di purpurei grappi,
Mentre le mormoranti acque, o disperse
Cadono giù dalle pendici, o i varj
Uniscon rivoletti in chiaro lago,
Che al coronato margine di mirto
Tiene innanzi il suo specchio cristallino.
S’ode cantar de’ pinti augelli il coro,
Cui zefiro gentil, che spira odori
Di campi e di boschetti, il suono accorda
Delle tremole foglie susurranti:
E intanto Pan l’universal Rettore
Con l’Ore e con le Grazie unito in danza
Guida appo sè la Primavera eterna[3].
Non può negarsi, che bello non sia questo irregolare, o naturale
giardino, che
vogliam dirlo. La descrizione di quello del Tasso, che fatta venne un
secolo prima
di quella del Milton, è più breve assai: nondimeno veggasi, quanto vi si
trovi espressa meglio la forma del presente giardino Inglese:
Poichè lasciar gli
avviluppati calli,
In lieto aspetto il bel giardin s’aperse:
Acque stagnanti, mobili cristalli,
Fior varj, e varie piante, erbe diverse,
Apriche collinette, ombrose valli,
Selve, e spelonche in una vista offerse;
E quel, che il bello e il caro accresce all’opre,
L’arte, che tutto fa, nulla si scopre.
Ecco laghi e numi, ecco varie maniere di fiori, d’erbe e di piante, non
in vasi,
non a disegno, non in linea retta, ma col vario e bello disordine della
natura; ecco il lucido colle, e l’oscura valle in contrapposizione, e l’orrido
e il grande delle selve e spelonche unito all’ameno e al ridente degli altri
oggetti, ed ecco una prodigiosa estensione di luogo: finalmente chiusa è l’ottava
dalla definizione, per così dire, del giardino Inglese, nel qual si cerca sopra
ogni cosa, che quell’arte, che ha operato il tutto, niente apparisca. Poi con
precisione ancor maggiore soggiunge il Tasso:
Stimi (sì misto il culto è col negletto)
Sol naturali e gli ornamenti, e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
L’imitatrice sua scherzando imiti.
Il signor Shenstone, che in tal materia è autor classico, così scrive:
“Alcune bellezze artifiziali sono con tal sagacità ordinate, che altri non può
concepirle, che per naturali; alcune naturali così felici riescono, che altri
giurerebbe tosto, che
sono artifiziali[4]„. Non sembra egli, che il signor Shenstone commentar
volesse il terzo, e il quarto de’ versi sopraccitati? Il concetto de’ quali, che
potrebbe così al primo parere alquanto ricercato, contiene una riflession vera
e profonda, e mostra qual fino e diligente osservatore della natura, e
dell’impressione dei suoi oggetti sul nostro animo, era il cantor della
Gerusalemme: benchè non lasciasse ad un tempo di giovarsi dell’altrui con
giudicio, come si giovò qui del simulaverat artem Ingenio natura suo, che
Ovidio dice d’un antro naturale, che artifiziale sembrava.
Aggiungerò alcuni altri versi, non tanto perchè questi rappresentino
meglio il giardino Inglese, quanto perchè mostrano, che
il Milton si ricordò non solamente de’ luoghi d’Omero, ove si descrive
la grotta di Calipso, e gli orti d’Alcinoo, ma di questo ancora del nostro
poeta, del quale avea, come degli altri nostri, non picciola cognizione:
L’aura, non che altro, è della maga effetto,
L’aura che rende gli alberi fioriti:
Co’ fiori eterni eterno il frutto dura,
E mentre spunta l’un, l’altro matura.
Nel tronco istesso, e tra
l’istessa foglia
Sovra il nascente fico invecchia il fico.
Pendono a un ramo un con dorata spoglia,
L’altro con verde il novo, e il pomo antico.
Lussureggiante serpe alto e germoglia
La torta vite, ov’è più l’orto aprico.
Qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’ôr l’have,
E di piropo, e già di nettar grave.
Vezzosi augelli in fra le
verdi fronde
Temprano a gara lascivette note.
Mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
Garrir, che variamente ella percuote.
Quando taccion gli augelli, alto risponde,
Quando cantan gli augei, più lieve scuote,
Sia caso, od arte, or accompagna, ed ora
Alterna i versi lor la music’ora.
Finalmente d’accennar non si lascia, che daini v’erano e cervi, e simili
animali, come vedesi in Inghilterra; atteso che, ritiratasi Armida, Rinaldo per
usanza rimane,
E tra le fere spazia, e tra le piante,
Se non quanto è con lei, romito amante.
Per verità sembrami, che l’immagine dell’Inglese giardino espressa sia
ne’ versi citati con una chiarezza a non lasciare desiderar di più, ed a farci
conchiudere, che il Tasso fu l’inventore di questo genere; genere, del quale nè
i giardini del tempo suo, ch’eran simmetrici tutti, nè le descrizioni, che
abbiamo, degli anteriori, dar non gli poteano la menoma idea. E notisi ancora,
che il Milton non potea non dipingere un giardino irregolare, così volendo il
soggetto suo; quando troppo, strana e sconcia cosa sarebbe stato il
rappresentare in que’ primordj del Mondo pettinature di alberi, scale,
terrazzi, e simili raffinatezze. Il Tasso per lo contrario, avendo a parlar
dell’opere d’una maga, condotto era naturalmente dal suo soggetto ad immaginare
quanto l’arte ha di più squisito e recondito, di più sorprendente e miracoloso.
Tuttavia egli seppe uscir fuori di quelle camere e gallerie verdi dell’età sua,
non curare i verdi rabeschi, dimenticarsi gli strali d’acqua, che spesso
colpiscono l’ospite inavveduto; e con l’occhio intellettuale veder seppe un
nuovo genere di delizia, che fosse meglio, che la natura, e nondimeno natura
fosse, o una natura, per usar questa espressione, artifiziosa, che volle
ornarsi, e parere ancora più bella.
Possiam dire pertanto, che non solamente de’ giardini in generale, ma di
questi eziandio più moderni, de’ quali non si trova veruna idea prima della
Gerusalemme, sia stata maestra in un certo modo alle
altre nazioni l’Italia; come se, dando loro le arti e
le scienze, voluto avesse, quasi a sollievo degli studj più faticosi, dar loro
anche ciò, ch’è il più puro de’ nostri piaceri. , e il ristoro maggiore de’
nostri spiriti, giusta quelle parole che allegai sul principio, del Cancellier
d’Inghilterra